Teatro Ragazzi G. Calendoli ONLUS

Teatro Ragazzi G. Calendoli ONLUS Padova

 

 

È vietato uccidere la mente dei bambini

Direzione scientifica di Ivano Spano

 Qui dell’infanzia come premessa gloriosa dell’esistenza si parla, luogo ideale dove si cela l’unità ed estasi da dove ogni sentimento promana. È nell’esperienza dell’infanzia che nasce la conoscenza senza dualità,la filosofia spinta al di là delle parole… Anche se in tutti è sepolto il gran tesoro dell’infanzia, esso si trova a irragiungibili profondità”.

(E. Zolla, Lo stupore infantile)

 

 

 

L’affermazione di Elémire Zolla sembra far giustizia dell’illusione di una rivalutazione della cultura dell’infanzia a fronte di processi sociali ed esperienze culturali che, di fatto, ci rimandano l’immagine di un soggetto sempre più in crisi e sofferente a causa di una identità che si accorda più tranquillamente con le immagini che i mezzi di comunicazione di massa ci rimandano piuttosto che con le proprie radici e la “propria” particolare storia. Quasi sempre, quando ci si riferisce alla cultura dell’infanzia, non ci si riferisce a ciò che l’infanzia produce ma all’infanzia come prodotto, emanazione, sogno o incubo della generazione adulta. Ciò che realmente sta sotto a tutto questo, anche se in maniera non esplicita, è il fatto che il mondo degli adulti sembra non essere più in grado di ascoltare il bambino. Ciò significa che gli adulti non si rendono conto che i bambini svolgono con grande competenza e professionalità il loro mestiere di bambino e che nessuno più di loro può definirsi esperto dell’infanzia. Gli adulti sottovalutano la creatività implicita nei raffinati processi dell’immaginazione mentale infantile. Temono la fantasia e tendono, anche se non sempre deliberatamente, a inibirla sin dal suo primo nascere. Le capacità di immaginare, di simbolizzare, straordinarie molle di sviluppo della mente umana, anziché essere coltivate e indirizzate sin dalla prima infanzia, vengono abbandonate dalla logica “razionale” dell’adulto. Sembra che il problema degli adulti sia solo quello di far vivere al bambino il tempo del presente in modo dinamico (come tutto è dinamico oggi). L’eccesso di positività, l’iper realismo spingono a una specie di situazione paradossale in cui l’agire finisce per coincidere con il re–agire, con un’operazione riflessa, con una risposta automatica (impulsiva). In qualche modo si è espropriati dei propri desideri mediante la loro stessa realizzazione. In qualche modo il bambino vive la quotidianità come esemplificazione della sua storia, vive la realtà, le cose, gli altri dentro una dimensione di pressoché totale ego-riferimento. Anche il sociale perde il suo significato e si riduce a sistemi di micro-relazioni che favoriscono l’isolamento, il conseguente bisogno del familiare e dell’individuale e inducono l’identificazione con personaggi pubblici (del cinema, della televisione, dello spettacolo, dello sport…), immagini del successo, della onnipotenza, della forza e della sicurezza ostentata. A questo punto, come direbbe Jean Baudrillard, “il delitto è perfetto” . Ma se l’infanzia, come afferma Gaston Bachelard, “è certamente più grande della realtà” ed è luogo dell’immaginazione, di come l’uomo immagina se stesso, della sua coscienza originaria, della sua modalità espressiva originaria, uccidendo l’infanzia, agendo per la sua progressiva mortificazione, l’uomo pone in essere le condizioni della sua stessa negazione. Probabilmente siamo pronti a pagare questo prezzo per non dovere più assolvere perpetuamente l’enorme compito di distinguere il vero dal falso, il bene dal male… E’ una Storia senza desiderio, senza passione, senza tensione, senza veri eventi, in cui il problema non è più quello di cambiare la vita, che era la massima utopia, ma quello di sopravvivere, che è l’utopia minima.

 

 I bambini e la città, la città dei bambini

 La città, allora, paradossalmente, può essere il luogo dove l’infanzia ritrova se stessa, i suoi significati, dove ognuno di noi ritrova e contribuisce a dar senso alla propria e all’altrui esperienza . Con l’avvento della città industriale e con la sua evoluzione a metropoli, megalopèoli, a città globale, assistiamo a un processo ambivalente: l’industria, il terziario poi e il complesso dei servizi penetrando nella città (implosione) la fanno esplodere (esplosione) e il processo urbano si frantuma verso l’esterno. La città invade il territorio che diventa urbano. In tendenza, la città finisce per coincidere con il territorio. La società urbana nasce dalle rovine della città. Si perdono, così, identità storico – culturali, esperienze singolari, valori e risorse locali, forme di conoscenza, sistemi di relazioni. Il sistema città non è più aperto nei termini in cui coincide con l’intera società. Meglio, la società dà forma, sostanzia la città, così come il cittadino. Come dice Adorno, quando il generale penetra nel particolare, il particolare scompare. I territori urbani si uniformizzano e divengono indistinguibili così come i comportamenti eterodiretti si omologano e si massificano. Il soggetto umano si ritrova separato da sé, dalle proprie radici. Ma, forse, la separazione più drammatica è quella dell’individuo dal gruppo, dalla comunità degli altri individui. L’individuo separato è diventato il polo di attrazione di diritti che lo determinano e lo giustificano nel suo totale ego riferimento. La vita del soggetto, astratta dalla società, è chiusa in una auto referenzialità circolare: bisogni indotti – astratti, loro soddisfazione, calcolo razionale dell’utile, rapporto con il mercato luogo esclusivo in cui questi bisogni si possono rappresentare (si pensi alla diffusione del commercio in Internet).

Ecco, che come afferma Edith Cobbe, l’esistenza, l’essere del bambino si manifesta sempre nella sua capacità, in evoluzione, di apprendere, pensare e creare significati del mondo come lui li percepisce e non come noi glielo rappresentiamo, in contrapposizione, quindi, con le capacità di registrare e memorizzare le interpretazioni del mondo fornitegli dagli adulti. Questo permette al bambino di andare oltre il compimento e la maturazione di tipo biologico e aggiungere (autonomamente) forma e novità all’ambiente che lo circonda. Qui, autonomia, significa concretamente quel processo di auto produzione di norme. Si pensa a un bambino normativo e non normato (da una cultura adultocentrica incape di reali trasformazioni). L’infanzia é il luogo, quindi, dell’apparire del bambino come risorsa e di conseguente ridefinizione del ruolo dell’adulto. Si tratta di applicare alle dinamiche evolutive e sociali quel concetto espresso da Lev Vygotskij di “area potenziale di sviluppo”, quel territorio che vede protagonista il bambino grazie alla presenza (educativa) dell’adulto. Si tratta di mettere al centro dell’intervento sociale quella capacità del bambino di creare nuova territorialità intesa come capacità di estendere il complesso delle relazioni. Ma, la costruzione di nuova territorialità procede di pari passo al radicamento sul territorio, al recupero dei significati, dello spirito dei luoghi. Come afferma Heidegger “solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire”, dove abitare significa qualcosa che abita in noi, non che abitiamo. Ecco che il luogo viene percepito come “dono”, attraverso cui stabiliamo un rapporto (come “qualcosa che si possiede in comune”) e, grazie al quale, riusciamo a ritrovare una sintonia, a porre in essere delle possibilità. Sul piano operativo, delle reali pratiche sociali, non può che annunciarsi una nuova metodologia di lavoro che ha nella co-progettazione dei diversi soggetti la sua centralità.

I passi da fare sono semplici e “naturali”, come quelli dei bambini:

  • valorizzare le diverse espressioni e posizioni verso la condivisione di obiettivo comuni,

  • scegliere di lavorare non in maniera frammentata e spesso contrapposta ma in modo concertativo e integrato,

  • valorizzare la metodologia dell’ascolto, producendo la possibilità di stupirci per le posizioni degli altri,

  • scegliere di relazionarsi con tutti i territori (soggetti e istituzioni) entro cui prende senso l’esperienza del bambino (così come di ogni altro soggetto sociale),

  • recuperare il senso del tempo come caratteristica propria della manifestazione di ogni realtà, passando dall’aforisma “ogni cosa a suo tempo” all’aforisma “ogni cosa ha il suo tempo”, recuperando, così il senso evolutivo-trasformativo di ogni esperienza.

    Per tutto questo é necessario, allora, ridar senso alla nostra esperienza, riconciliarci con l’infanzia che è la nostra infanzia, ritornare a vivere la vita.

E allora, attenti: E’ vietato uccidere la mente dei bambini”!

 

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